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Il film della settimana: Paradiso amaro, di Alexander Payne

La nuova puntata della rubrica di Luigi Virgolin della Cineteca di Bologna, friulano di Sottoselva. Ogni settimana ci presenta una pellicola da vedere: per capire, per criticare, perché è il cinema

Woody Allen l’ha investito come “il più interessante autore di commedie oggi in circolazione”, e non è esattamente cosa da poco. Di certo, Alexander Payne nutre una predilezione per personaggi ordinari nostri simili, uomini qualunque che costruisce pezzo su pezzo in modo così felice da farceli trovare irresistibili. Dopo Jack Nicholson in A proposito di Schmidt (2002) e Paul Giamatti in Sideways - In viaggio con Jack (2004), questa volta è il turno di George Clooney, un attonito e smarrito avvocato discendente da una ricca famiglia hawaiana – The Descendants suona il titolo in originale – ed erede insieme ai suoi cugini delle ultime terre vergini dell’arcipelago. Un uomo al bivio, indeciso se vendere quelle terre con buona pace della tradizione familiare, impreparato a superare l’impasse di genitore vicario cui è relegato dalla moglie finita in coma a causa di un incidente.

Payne, in particolare, è un regista che dedica profonda cura ai particolari degli ambienti e al rapporto che i personaggi intrattengono con il paesaggio. Proprio da un’osservazione sull’ambiente circostante riguardo alle singole isole che, seppur separate, compongono l’arcipelago nel suo insieme, scaturisce il senso più autentico dell’agire dei membri della famiglia. Le vicende si snodano lungo una linea che a poco a poco conduce dalla frammentarietà all’unità, dalla contrapposizione conflittuale al riconoscimento e alla conquista del rispetto, dalla messa in discussione dell’autorità paterna alla complice condivisione, dall’odio e dal rancore al perdono. Il fatalismo cede il passo all’assunzione di responsabilità, dunque alle decisioni, dunque al cambiamento.

Con mano lieve ed intelligenza nell’accostarsi alle umane vicende, con sfumata ironia tragicomica il film giunge a conclusione, quando il grumo di affanni si scioglie in un afflato di pietà e di rinnovata fiducia nel congedare e nel ritrovare le persone care. Scriveva il grande poeta dialettale Biagio Marin: “Fa che la morte mia, / Signor, la sia / comò ’l score de un fiume in t’el mar grando”. Così dovrebbe essere ancora, anche in tempi di sonnolenti acquari televisivi e di paradisi artificiali.

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