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Il film in sala della settimana: "Diaz", di Daniele Vicari

Puntata settimanale della rubrica di Luigi Virgolin del Comune di Bologna, friulano di Sottoselva. Ogni settimana ci presenta una pellicola da vedere: per capire, per criticare, perché è il cinema

Io sono un narratore e penso che raccontare la parte per il tutto sia più efficace che realizzare polpettoni indigesti. Per me è importante trovare il giusto equilibrio tra realtà e metafora in un film, non appiattirsi sulla cronaca”. Così Daniele Vicari risponde a chi gli contesta di aver lasciato fuori dal suo Diaz – Don't clean up this blood la voce e le ragioni del movimento che contestò il G8 di Genova nel luglio del 2011, oppure le istanze delle forze dell’ordine che si trovarono a fronteggiare una protesta dalle diverse facce a cui non erano preparate. Perché il piatto forte del film sono le violenze della polizia alla scuola Diaz protrattesi poi nella caserma di Bolzaneto, ossia la più grave sospensione dei diritti civili in un Paese democratico, come riferirono la stampa e gli organismi umanitari internazionali.

Si parlò anche di ‘macelleria messicana’, per la brutalità della mattanza. Che non fu esattamente cieca, visto l’avvallo di cui l’operazione godette presso le alte sfere, e l’artificiosa meticolosità con la quale fu perpetrata (le molotov portate all’interno della scuola a blitz concluso). Una brutalità che mirava all’umiliazione, alla spoliazione fisica e morale dell’avversario. Lascia sgomenti il film di Vicari: duro, teso, concentrato, con molta azione e le parole ridotte all’osso. Abile nel fondere assieme i filmati e i reperti d’archivio con le riprese sul set. Anche se i documenti autentici sono più efficaci di certe ricostruzioni restituite a ralenti. E i dialoghi suonano didascalici e posticci quando i personaggi sentono la necessità di spiegarsi.

C’è infine un momento nel film, breve ma che preme su una questione gravida di risvolti teorici: un ragazzo alla finestra assiste alla violenza che si sta scatenando su una vittima inerme, ha la possibilità di testimoniare e fotografare quella violenza ma non lo fa, si ferma impotente e paralizzato sulla porta dell’abisso. Cosa è rappresentabile, fin dove può spingersi la volontà di mostrare, quando la materia è talmente incandescente da risultare insostenibile allo sguardo? E alle orecchie, del resto: provate a chiudere gli occhi quando la polizia fa irruzione alla Diaz e avrete un assaggio della colonna sonora dell’inferno (“ove udirai le disperate strida”). È il nodo realtà/metafora – e Vicari lo risolve coraggiosamente – perché un film non sia solo cronaca.

 

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