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Venerdì, 26 Aprile 2024
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Sindacalista, lavoratore e volontario con i bambini poveri: la storia di uno dei migranti costretto a dormire per strada

Abbiamo incontrato Habib, una delle persone arrivate dal Bangladesh che, nei giorni scorsi, sono state costrette a dormire per strada a causa della situazione critica all'ex caserma Cavarzerani. Questa è la sua storia

Di Habib, in qualche modo, vi abbiamo scritto qualche giorno fa. Lui è un uomo di 32 anni, arrivato sabato pomeriggio a Udine dopo un viaggio iniziato in Bangladesh ad agosto. Di lui vi abbiamo detto che, insieme ad un connazionale più giovane di un anno, è rimasto fuori dall'ex caserma Cavarzerani cercando di farsi identificare e di trovare un posto per ripararsi dalla pioggia. Dopo un rimbalzo tra istituzioni e solo grazie all'intervento di alcune volontarie dell'associazione Ospiti in Arrivo, i due sono riusciti a farsi rilasciare un documento e a trovare una sistemazione più che provvisoria: dopo avergli procurato una tenda e due sacchi a pelo, Habib e l'altra persona migrante hanno trovato riparo sotto i portici del Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Esatto, proprio lì dove il primo cittadino Pietro Fontanini aveva promesso di regolare la situazione, non solo impedendo ai senza tetto di ripararsi, ma garantendo a chiunque ne avesse bisogno delle sistemazioni in alloggi temporanei. Dopo che la Prefettura, in un paio di giorni ha trovato una sistemazione per i due migranti (nonostante al centro situato all'ex Cavarzerani, ormai pieno oltre i limiti, continuino ad arrivare molte persone), abbiamo deciso di incontrare Habib: questa è la sua storia.

La storia

Habib non è un ragazzino. Habib è un uomo adulto che in Bangladesh lavora e fa volontariato. Ci incontriamo in centro a Udine, gli scrivo un Sms con il nome di una piazza e lui, in inglese, mi risponde che mi raggiungerà in breve, il tempo di inserire l'indirizzo su Google Maps e incamminarsi. Arriva sorridendo, ha un grande paio di occhiali da sole, jeans e maglietta. Rimaniamo in piedi, ai margini della piazza, rifiuta il mio invito a sedersi ai tavolini di qualche bar per bere qualcosa e subito comincia a rispondere alle mie domande. La prima, quella che tutti noi "di questa parte del mondo" ci facciamo sempre. «Perché sei scappato dal tuo paese?». 

«In Bangladesh ero un leader del sindacato dei lavoratori dei trasporti. Nel tempo ho fatto diverse manifestazioni per le richieste dei lavoratori e a causa di questo mio impegno sono stato coinvolto in politica. È proprio per questo che ho cominciato ad avere dei nemici, degli oppositori a cui non stavano bene i movimenti di agitazione del settore dei trasporti. Sono stati loro a minacciarmi e ad attaccarmi due volte con lo scopo di uccidermi. È a causa loro che sono scappato per cercare di salvarmi la vita». Mentre ce lo racconta, tento di immaginarmi cosa significa rischiare la vita per un impegno sindacale e politico e lui mi fa vedere alcuni servizi televisivi andati in onda in Bangladesh. «Ecco, questo sono io», indica col dito un'immagine sul suo telefonino. Gli dico che, quindi, era un "pezzo grosso" e lui si mette a ridere. «No, no. Volevo e voglio solo che i diritti delle persone che lavorano vengano rispettati. Ma, in questo momento, la politica in Bangladesh è molto cattiva per chi protesta». E poi aggiunge: «e molto buona per chi sa adulare», sottintendendo l'ovvio, ovvero che se "stai dalla parte giusta" non ti succede nulla, in caso contrario corri i rischi che ha corso Habib. 

Alcuni volontari (Habib sulla destra) della Potho Bondhu Foundation

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Gli chiediamo della sua vita "prima", e ci racconta che, oltre all'impegno sindacale e politico all'interno della Bangladesh Awami League, l'impegno che gli occupava più tempo era la sua attività di volontario all'interno della Potho Bondhu Foundation, un'organizzazione di Dacca che si occupa di bambini e persone che vivono per strada, distribuendo loro viveri e beni di prima necessità. E poi la famiglia, due fratelli e una sorella, tutti più piccoli, e i genitori. «Sì, vorrei che venissero in Italia. Sono un po' preoccupato per loro, perché credo che i miei oppositori non pensano al bene delle persone ma solo a fare soldi, ma se sanno che non sono più attivo in Bangladesh non faranno niente». E allora intanto prova a fidarsi dell'Italia. Anzi, lo fa senza indugio, senza soffermarsi sulle prime ore passate a Udine, sotto un violento temporale, rimbalzato da un ufficio all'altro senza possibilità di farsi capire, di farsi riconoscere e di avere un tetto sopra la testa. «So che le persone qui sono buone e anche il governo lo è. Venendo qui ho la speranza di salvare la mia vita, quindi mi auguro che il governo mi dia il permesso di rimanere». Gli spieghiamo che anche in Italia, però, ora c'è una situazione difficile, economica e sociale. Lui sorride e ci risponde che, «qui almeno c'è la libertà». Ci guardiamo intorno, il primo sole di autunno bacia gli studenti e le studentesse che hanno appena manifestato per il clima, i tavolini dei bar sono pieni di signore e signori che bevono l'aperitivo, chi parlando di politica chi dell'Udinese, l'aria è fresca ma briosa. Lo guardo e penso che lui è scappato perché stava cercando di aiutare le altre persone. Mi domando chi possa aiutare lui, ora. Glielo chiedo. «Non lo so. Forse Dio, forse le persone come Paola». Ride. Paola è una delle volontarie di Ospiti in Arrivo, una di quelle persone che si è impegnata a fargli avere un riparo, che lo ha assistito mentre cercava di farsi identificare. Una di quelle persone che si farebbe in quattro per chiunque veda violati i suoi diritti. 

E ora?

«Udine è una bella città. Il mio arrivo qui non è stato facile, pioveva tanto e non capivo cosa succedeva. Adesso va meglio, ma durante le prime notti in tenda mi sentivo molto solo». Gli chiedo se ha nostalgia del Bangladesh, ma non capisce. Cambio domanda. Vuole trovare un lavoro? Non ci mette molto a rispondere. «Innanzitutto spero di poter rimanere in Italia e poi, certo, tutte le persone devono lavorare per guadagnarsi da vivere. Non c'è alternativa al lavoro... il lavoro è un diritto di tutte le persone». Che sciocca, mi sono dimenticata che stavo parlando con un sindacalista. Gli sorrido, mi sorride. «Grazie», mi dice in italiano. «Questa parola me l'ha insegnata Paola».

Il pensiero di Habib sull'Italia

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