rotate-mobile
Venerdì, 26 Aprile 2024
Cronaca Pasian di Prato / Via Cristoforo Colombo

Heysel: come un friulano di 17 anni riuscì a sopravvivere alla tragedia

Il pasianese Erik Zampieri la sera del 29 maggio 1985 si trovava nel famigerato settore "Z", che venne preso d'assalto dai tifosi del Liverpool. Il suo ricordo, a 30 anni dalla strage, è più vivo che mai

«All’inizio avevo avuto l’idea di andare a vedere la semifinale d’andata con il Bordeaux, a Torino, ma i biglietti andarono esauriti in pochissimo tempo. Così mi rifeci con l’acquisto del tagliando per la finale: viaggio, pernotto e ingresso allo stadio, per un totale di 190mila lire. Al vecchio “Comunale” ero già andato alcune volte, ma quella sarebbe stata la prima che seguivo la Juve in Europa». Nel momento in cui il pasianese Erik Zampieri - all’epoca 17enne - stava comprando il “pacchetto” per la famigerata sera dell’Hysel, al club “Stella d’oro” di Campoformido, non sapeva che quella sarebbe stata anche la sua ultima trasferta per la squadra amata. La passione è rimasta intatta - si definisce ancora un grande tifoso della Vecchia Signora -, ma il tragico evento non lo ha di certo stimolato per altri viaggi continentali. A distanza di 30 anni dalla serata dell’Hysel ci ha raccontato la sua storia, di come abbia evitato per poco una fine che per 39 persone è stata inesorabile. 

Quello che oggi è lo stadio “Re Baldovino” vene raggiunto da Erik in corriera, dopo un viaggio di 23 ore, una notte ad Anversa e un paio di giri turistici tra Waterloo e la capitale belga. Dall’approccio “cittadino” con i tifosi Reds non si sarebbe mai aspettato quanto accaduto poche ore dopo: «C’erano ovviamente molti supporter avversari in giro per la città, che se la spassavano in allegria. Ho assistito a scambi di sciarpe, bevute collettive e grandi cantate nelle strade e nelle piazze. Nulla faceva presagire qualcosa di sinistro». 

L’ARRIVO ALLO STADIO. Le prime avvisaglie negative sono invece arrivate al momento dell’arrivo allo stadio: «Vidi una distesa enorme di bottiglie e lattine a terra. Coprivano completamente tutta la zona circostante l’impianto. Mentre ci avvicinavamo i tifosi inglesi ci insultavano, prendevano a pugni la nostra corriera e inneggiavano alla Roma, all’epoca la rivale principale della Juve. Una volta scesi ci dirigemmo verso il nostro settore, lo “Z”. All’ingresso ci furono controlli molto blandi, tanto è vero che passò di certo della gente senza nessun titolo. Eravamo sistemati accanto al tifo del Liverpool, con un gruppetto sparuto di poliziotti - saranno stati al massimo cinque - a tenere a bada la situazione. Ci divideva una rete che oggi non andrebbe bene nemmeno per un pollaio».

L’INIZIO DELLA FINE. In poco tempo la situazione assunse una piega traumatica: «A pochi minuti dal nostro insediamento, saranno state le 19:30, gli inglesi iniziarono a tirarci delle pietre, recuperate dai ruderi dello stadio che era in condizioni impensabili per gli standard moderni. Successivamente abbassarono la rete e iniziarono una carica verso di noi. Ormai non esistevano più decisioni autonome, ma era la forza della folla a decidere per te. Io venni spinto in alto, fortunatamente, e riuscii a guadagnare l’uscita. Altri in basso, verso la parte che poi sarebbe crollata, con il destino che tutti conosciamo». 

INFORMAZIONI CONFUSE. Oggi una situazione del genere sarebbe impensabile per la velocità con cui viaggiano le informazioni, ma 30 anni fa le cose erano nettamente diverse. Il paradosso volle che chi stesse seguendo il match in televisione fosse più informato su quello che stava accadendo che i diretti, e involontari, protagonisti. «Non mi rendevo davvero conto di quanto stesse accadendo - racconta Erik -. Una volta spinto fuori mi misi a girare attorno all’impianto per rientrare da qualche parte. Ci tenevo talmente tanto che non mi sarei mai voluto perdere il match. Mentre giravo vedevo che arrivavano delle ambulanze, con delle persone che venivano portate via. Raccontare la vicenda freddamente assume un significato, ma viverla in maniera diretta aveva un qualcosa di talmente alienante che non ti permetteva di ragionare con lucidità. Continuando a camminare guadagnai un ingresso e, in maniera casuale, riuscii ad arrivare alla curva occupata interamente dal tifo juventino, il settore opposto a quello in cui stavo all’inizio».

LE TRISTI CERTEZZE. A quel punto le cose iniziarono a farsi più chiare per Erik: «Saranno state le 21 circa, la partita ancora non era iniziata. La voce che ci fossero dei morti ormai si era diffusa, e la parte più calda del tifo si stava già organizzando per operare una vendetta. Per fortuna, mentre si stavano per muovere in massa, iniziarono a giocare. L’incontro venne seguito in maniera relativa, ma il fatto che solo ci fosse distrasse per un po’ la gente. Alla fine i giocatori della Juventus vennero sotto gli spalti. A più riprese la cosa è stata criticata, come se in quel modo si volesse infangare la memoria dei morti, ma credo che strategicamente sia stata la cosa migliore. L’attenzione dei tifosi che meditavano la caccia all’inglese venne infatti distolta, e una volta finite le “celebrazioni” dall’altra parte non c’era più ombra di nessun tifoso avversario».

IL RITORNO A CASA. «Una volta in albergo telefonai ai miei genitori, che si tranquillizzarono per il fatto che stessi bene. Ero talmente sconvolto che non chiesi nulla a loro e mi misi a dormire. Quello che accadde veramente, in quelle proporzioni, lo scoprii leggendo i giornali i giorni dopo. In corriera con noi ci fu solo signore che rimediò la rottura dei legamenti del ginocchio, ma per il resto nessuno si fece male». Con Erik, e i suoi compagni di viaggio, il destino fu clemente. Lo stesso non avvenne per altre 39 persone, che videro sacrificare la loro vita per una partita di calcio.

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Heysel: come un friulano di 17 anni riuscì a sopravvivere alla tragedia

UdineToday è in caricamento