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Il film in sala della settimana: Shame, di Steve Mc Queen

Dopo il successo della prima puntata prosegue la rubrica di Luigi Virgolin della Cineteca di Bologna, friulano di Sottoselva. Ogni martedì ci presenterà una pellicola da vedere: per capire, per criticare, perchè è il cinema

In superficie, Shame è croce e (molta) delizia di un giovane corpo che in modo compulsivo cerca soddisfazione all’infinita fame d’amore in altri corpi senz’anima e senza nome. Peraltro, sempre di fame ma di altra specie ragionava Steve McQueen – omonimo di cotanto attore – con il precedente Hunger (2008), dove lo stesso stupefacente corpo di Michael Fassbender era il luogo da cui l’attivista dell’IRA Bobby Sands lanciava l’estremo tentativo di evasione, lo sciopero della fame appunto. Ora quel corpo è diventato prigione suo malgrado, costretto all’atto sessuale in una coazione a ripetere. Nella falsa illusione che l’indipendenza nei rapporti sociali costituisca una sicura via di fuga dalla responsabilità.

Più in profondità, il film è una spietata riflessione sulla nostra società parcellizzata e voyeuristica. Non è un caso che il regista provenga dalla video arte e dalla fotografia, ossia da discipline artistiche che dal di dentro esplorano le possibilità e le derive della civiltà dell’immagine. L’incontrollato livello di accessibilità e di proliferazione di simulacri visivi – ce lo ricordano i tanti schermi delle televisioni, dei computer, delle vetrate riflettenti – fanno pensare ad un unico ambiente vitale dove ogni relazione è smaterializzata e pronta ad essere consumata innanzitutto con gli occhi, ridotta a pornografia. Qual è la distanza che separa il desiderio dal bisogno biologico, se l’intero immaginario è a portata di un click?

E così il piacere risiede sempre nel piacere successivo, nell’incontro futuro, nella prossima preda o manipolazione di sé, in una fuga in avanti senza evoluzione. Con l’effetto di loop di un’installazione visiva, che una volta terminata ricomincia sempre uguale. Fuori uno spettatore, avanti un altro. E noi ce ne usciamo dalla sala svuotati, con addosso un’urticante sensazione di irrealtà e di vuoto esistenziale. Ma l’angoscia che fiammeggia nei lineamenti del protagonista è reale, sul suo volto angelico mutatosi in ghigno bestiale, come l’urlo di Munch o qualche trasfigurazione metà umana metà animale di Francis Bacon.

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