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Cronaca Fiumicello

«Giulio Regeni è stato ucciso perché pensavano fosse una spia»

L'aspetto emerge dalla prime risultanze investigative sulla vicenda. Il ministro Gentiloni: «Non ci accontenteremo di verità presunte»

L'Italia pretende la verità e non accetterà versioni di comodo sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore 28enne torturato e ucciso a Il Cairo, in Egitto. Per il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, intervistato da Repubblica, non ci sono ragioni di realpolitik che tengano: i responsabili del delitto che ha visto perdere la vita il ricercatore di Fiumicello devono essere puniti.

NO A VERITÀ PRESUNTE. «Non ci accontenteremo di verità presunte - dice Gentiloni - vogliamo che i reali responsabili siano individuati e puniti in base alla legge. L’Egitto è un nostro partner strategico, con un ruolo fondamentale per la stabilizzazione della regione - ha aggiunto il titolare della Farnesina - L'Italia ha però il dovere di difendere i suoi cittadini».

LA DIFESA DEI CITTADINI. Gentiloni, sulle colonne del quotidiano romano, precisa che «qui però ci troviamo di fronte a un problema diverso, cioè il dovere dell'Italia di difendere i suoi cittadini e pretendere che, quando essi sono vittima di crimini, i colpevoli vengano assicurati alla giustizia. Questo dovere vale tanto più nei rapporti con un Paese alleato come l'Egitto». Il ministro ha inoltre affermato di aver «chiesto e ottenuto che al Cairo funzionari investigativi del Ros e della polizia possano partecipare alle indagini egiziane».

CONSIDERATO UNA SPIA. «Giulio Regeni è stato ucciso perché considerato una spia dagli egiziani», secondo le prime risultanze investigative. Regeni sarebbe stato dunque un "sorvegliato speciale" per i suoi legami "stretti" con i soggetti del sindacato. Che il giovane fosse un informatore dei servizi segreti, assunto dall'Aise, era una voce circolata anche nei giorni scorsi, e categoricamente smentita.

IL PUNTO DEL RITROVAMENTO. Il punto preciso dov’è stato abbandonato il cadavere di Regeni è sulla parte superiore di un cavalcavia sull’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria. Il 3 febbraio, nove giorni dopo la sua scomparsa, i giornali scrissero che il corpo del ricercatore friulano era stato ritrovato in un fosso sul ciglio della strada e la polizia ipotizzò che fosse morto in un incidente d’auto. Piuttosto che un fosso - scrive l’inviata de Il Corriere della Sera -, si tratta in realtà di una superficie ghiaiosa al di là di una barriera di cemento alta un metro che fa da guardrail. Non ci sono tracce di pneumatici, né di vetri rotti, né di sangue. Non ci sono segni che qualcuno abbia ripulito l’asfalto dalla spessa coltre di sabbia. Come ha fatto il corpo di Giulio ad arrivare a Città 6 ottobre? «Ci sono tre scenari», dice alla giornalista del quotidiano milanese Malek Adly, giovanissimo avvocato del Centro per i diritti economici e sociali che conosceva Giulio Regeni. «Il primo è che sia stato un atto di criminalità, ma non è possibile perché tra Dokki e Tahrir la notte della scomparsa, il 25 gennaio, c’erano migliaia di forze dell’ordine. Il secondo è che sia stato preso da un gruppo terroristico, ma la sua morte non segue le loro modalità di esecuzione né di rivendicazione. Il terzo è che sia stato rapito dalla Sicurezza di Stato o da un’altra agenzia. Ci sono precedenti in questo senso con egiziani e stranieri».


 

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