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Cronaca San Domenico / Piazza Libia, 1

Si chiamava Ermal Halili e, prima di tutto, era un ragazzo che ora non c'è più

Il ragazzo di 18 anni morto ieri in piazzale Libia, a causa di una coltellata al torace che non gli ha dato scampo, viveva in Friuli da alcuni parenti, aveva un fratello gemello e cercava lavoro

È morto un ragazzo, ieri a Udine. Le cause fisiche risiedono in una coltellata letale, infertagli da un quasi coetaneo, durante una litigata troppo feroce. Le cause razionali stentiamo a trovarle. La retorica ci impone di dire e di pensare "non si può morire così". E la mente si arrovella in frenetici calcoli per mettere in ordine tutte quelle volte in cui lo abbiamo pensato, finendo per trovare consolazione nell'ineluttabilità della morte stessa e conforto nei casi in cui questa è arrivata come un sollievo, meritandosi l'appellativo di "giusta".

Un pregio della morte, e ci perdoni l'assoluta dignità del dolore, è però quello di metterci di fronte alla vita. Quando muore una persona a noi vicina o qualcuno di noto, quello che succede dopo lo choc, è l'assistere alla nascita pensiero di ciò che c'è stato fino a quel momento. Uno a uno i giorni, le imprese, i sentimenti, i pregi e difetti snocciolati compongono il quadro di un'esistenza unica e irripetibile. Ma quando muore un estraneo, cosa succede? Quando quello che si para davanti ai nostri occhi è un fatto di cronaca, cosa succede a queste esistenze uniche e irripetibili? 

La vita di Ermal non ha fatto eccezione. Prima di ieri pensava, sognava, sorrideva, piangeva, lavorava, amava, sbagliava. Tante parole - mai abbastanza - per dirne solo una. Viveva. Come tutti noi. 

Eppure sembra che non importi tanto chi fosse Ermal, quanto cosa rappresentasse per ognuno di noi.

Per il sindaco di Udine Pietro Fontanini, Ermal era il rappresentante di un'etnia. Ermal, come il ragazzo che lo ha accoltellato, era di origine albanese, e forse il sindaco si è sbagliato perché voleva dire "nazionalità", nel suo comunicato dove non si legge una parola di condoglianze nei confronti della famiglia di Ermal, né di dispiacere per due giovani vite rovinate.

Per molti lettori e naviganti dei social, Ermal era il rappresentate di un problema, quello dei minori stranieri non accompagnati. A inferire la coltellata mortale è stato infatti un altro ragazzo, di 17 anni, accolto nella comunità Don de Roja di Udine. E questo è bastato per mettere alla gogna un sistema nel suo complesso, quello della gestione dei minori non accompagnati e lanciarsi in una estenuante e banale generalizzazione del fenomeno. A morire non è stato solo Ermal, ma anche la giovinezza di un ragazzo che, per quel che ne sappiamo, ha già vissuto troppo a lungo nelle difficoltà. Un ragazzo la cui minore età al momento ne tutela solo l'identità ma non lo preserva dall'approsimatezza con cui si giudica il suo gesto senza sapere nulla della sua vita e dal tentativo di inscatolarlo in alcune semplici definizioni: "albanese", "minore non accompagnato", "problematico".

«Ermal era certamente un ragazzo con un vissuto difficile, che come tutti gli adolescenti ha fatto delle bravate ma che si trovava senza il sostegno della famiglia, che ora attende la sua salma dall'Albania», ci racconta un'operatrice del settore che aveva lavorato con lui in passato.

Ermal, per fortuna, era anche altro. Molto altro. 

Era un ragazzo di 18 anni, compiuti insieme al suo fratello gemello Ervin lo scorso 27 maggio. Ermal era dunque un fratello, che amava quel suo gemello così diverso da lui ma parte di uno stesso mondo come nessun altro. Era un figlio, un cugino ed era un nipote. Ermal era un amico. Ermal era una persona con i suoi sogni e i suoi limiti. 

«Ermal ha un gemello e un'intera famiglia che si sta disperando», continua l'operatrice parlando di lui al presente, perché fatica a credere a quello che è successo. È quello che è successo è che un ragazzo di appena 18 anni ha perso la vita. 

«La morte di un ragazzo deve colpire tutti e forse questo è il momento di stare zitti. Pensiamo solo che è stata stroncata la vita di un diciottenne che aveva delle possibilità e ora non ce le ha più. Chi parla a sproposito, in queste ore, vuol dire che non si è fermato nemmeno per un istante a riflettere sul fatto che una vita è stata stroncata. Se l'accoltellamento non avesse portato alla morte di Ermal,  avremmo liquidato la cosa con un "ecco, i soliti albanesi", ma se neanche di fronte alla morte non facciamo una riflessione profonda, significa che stiamo sbagliando tutto». Lo sfogo di una persona che lavora a stretto contatto con i minori stranieri non accompagnati è profondo e nella sua ferocia non perde di lucidità. 

«Avremo potuto evitare questa cosa? Forse sì. Ma dobbiamo fare un passo indietro e ragionare razionalmente e in modo rispettoso. Ma del resto, se non fanno impressione i morti in mare, di cosa stiamo parlando? La miseria dove sta? Da tutte e due le parti. Di chi dice "bene, uno in meno" e della nostra che non ci fermiamo a riflettere».

Dal punto di vista di chi lavora con i minori stranieri non accompagnati, la questione non può essere trattata certamente dal punto di vista della sicurezza. «In molte comunità non si lavora bene perché i gruppi sono troppo numerosi e non vengono seguiti come dovrebbero. Mancano le competenze e le attività da far fare a ragazzi che spesso sono anche molto vulnerabili. Non viene fatto uno screening, benché il Friuli Venezia Giulia sia la terza regione in Italia per presenza di minori stranieri non accompagnati. Il problema è sotto gli occhi di tutti, ma in visione emergenziale non si fa nulla. Se a monte la visione diventa progettuale e non emergenziale, queste cose non succedono. Evidentemente si vuole che le cose vadano così, perché la marginalità crea solo marginalità».

Ermal, che si trovava in Italia da due anni, stava cercando lavoro, aveva seguito con buon profitto dei corsi da muratore e aveva la certificazione per l'italiano. «Era bravo con le mani, era un uomo "di braccio", molto collaborativo. Il problema è che non sempre è stato facile trovargli delle occupazioni, ma quando ha lavorato in un'azienda agricola si è dato tantissimo da fare». 

Il pensiero corre alle possibilità che ora lui non ha più e a quelle di chi è ancora qui e può ancora farcela.

«Sto pensando a un altro ragazzo il cui percorso è stato organizzato dai volontari: sta facendo dei progressi enormi dal punto di vista dell'inclusione sociale e lavorativa. Ermal ora verrà etichettato solo come un ragazzo con denunce e problemi, a cui però non è stata data un'occasione. Se diamo prospettive, snelliamo le procedure e creiamo delle situazioni di inserimento più semplici, non è detto che tutti ce la facciano, ma la percentuale potrebbe essere alta. Sono tante le persone sconvolte dalla morte di Ermal, a partire dalla sua famiglia, da suo fratello Ervin che ha dovuto riconoscere la salma, dai suoi amici neodiciottenni, ma anche da tutti quelli che si impegnano quotidianamente per creare delle prospettive concrete a questi ragazzi. Qui non siamo davanti a un fatto di cronaca, qui siamo davanti a una vita che non c'è più».

  • Ermal Halili

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