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Insulti razzisti a Maignan, si guardi la luna e non il dito

Dichiarare a gran voce che il Friuli non è razzista è l’ennesima prova del provincialismo in cui viviamo quotidianamente, gongolando dei nostri piccoli primati senza fare lo sforzo di voler crescere davvero

Se volessimo fare la cronaca dei fatti dovremmo aspettare la risultanza delle immagini visionate dalla Questura, che dovrebbero poter circoscrivere i protagonisti attivi della vicenda. Per il resto quel che sappiamo è che un uomo, un giocatore, ha preso singolarmente un’iniziativa che poche altre volte era stata intrapresa direttamente dal campo: viene insultato, si indigna (giustamente, ci mancherebbe pure che in torto sia lui) di questo comportamento e lo riferisce all’autorità più prossima, ovvero l’arbitro in campo. Siamo abituate e abituati a lasciare che di razzismo, diseducazione, discriminazione e antisportività se ne occupino le campagne patinate delle federazioni, le fascette colorate al braccio e i comunicati infiocchettati delle società sportive. Tante - quanto inutili - toppe a comportamenti che, non giriamoci attorno come allocchi gridando a uno scandalo di oggi, ci sono da sempre e più o meno ovunque. 

Caso Maignan, identificato uno dei responsabili

Prima di Maignan sono stati altri i calciatori a fermarsi per dire “basta” direttamente dal campo. Forse il primo è stato vent’anni fa Marco André Zoro, difensore ivoriano del Messina, che non resistette agli insulti dei tifosi interisti. Poi ce ne furono altri, Koulibaly, Eto’o, addirittura Muntari che venne espulso per aver lasciato il campo dopo aver fatto presente la situazione al direttore di gara, che non gli diede retta. Fino all’episodio più recente, in campo internazionale, con l’attaccante del Real Madrid Vinicius vittima della stessa forma di violenza subita dal portiere del Milan, quei versi da scimmia intrisi di una colonialità ormai talmente indotta da non rendersene nemmeno più conto.

E poi, cosa succede? Parafrasando il detto, se la vittima indica la luna, il friulano guarda il dito. Dove la luna è l’insulto (razzista, discriminatorio, reiterato, onnipresente, talvolta persino inconscio) e il dito è il fatto che sia successo a Udine. Ancora una volta eccoci qui, a guardarci l’ombelico e a ripeterci quanto sia impossibile che in Friuli (e al Friuli) possano accadere certe cose, dove macaco è quasi un intercalare ma dove far finta che gli uh uh e gli “scimmia” diretti verso un afrodiscendente (già, perché Maignan è francese) non siano veri insulti è all'ordine del giorno. E dove gli stessi che minimizzano, pretendono di avere ragione in nome dell’onestà paventata di un “popolo” che avrebbe il merito di autodefinirsi lavoratore, concreto, accogliente, che si fa da solo e quindi rigetta al mittente ogni accusa senza nemmeno un tentativo di autocritica. Eppure il video in cui si sente un tifoso dalla Curva Nord ripetere non una ma più di una decina di volte “neg** di me**a” lo abbiamo ormai visto e sentito tutte e tutti. D'altronde l'ha divulgato lo stesso autore pensando facesse ridere.

Il massimo sfogo, del resto, si compie tra i confini della regione, con le tifoserie di Udine e Trieste a dare il meglio (ironico) di sé a ogni occasione. Dobbiamo davvero ricordare quanto successo qualche giorno fa al Carnera durante il campionato di A2? Dobbiamo davvero spiegare un concetto semplice come quello della discriminazione diffusa tra i tifosi quando gli stessi sono capaci di gridare “Noi non siamo napoletani” quando in campo c’era Di Natale? Dobbiamo davvero scrivere che basta spostarsi di settore senza arrivare in Curva Sud per sentire alcuni tifosi friulani insultare anche i giocatori dell'Udinese stessa?

Maignan ha fatto una cosa banale quanto potente, non è stato zitto. È un piccolo merito che non vale la cittadinanza onoraria di Udine nella misura in cui finora non è stata attribuita a nessuna delle persone che, come lui, sono discriminate ogni giorno e ogni giorno fanno sentire la loro voce. Dichiarare a gran voce che il Friuli non è razzista è l’ennesima prova del provincialismo in cui viviamo quotidianamente, gongolando dei nostri piccoli primati senza fare lo sforzo di voler crescere davvero. Non c’è un “popolo” da difendere qui, c’è piuttosto da chiedere scusa a un uomo che si è sentito dare dell’animale per il colore della sua pelle e prendere atto che siamo immersi in un problema mai risolto. 

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