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«Dopo il Covid ho dovuto reimparare a vivere, non sottovalutate il virus», la storia di Jarno

Jarno Calderini ha 46 anni e ha contratto il virus a fine febbraio: è stato ricoverato prima in malattie infettive e poi in terapia intensiva dove è stato intubato per 17 giorni. Per qualche istante i medici hanno pensato che non ce la facesse

«Dopo il Covid ho dovuto reimparare a vivere, non sottovalutate il virus», la storia di Jarno Calderini, 46enne udinese dirigente della Danieli di Buttrio, potrebbe cominciare dalla fine. In questi giorni che ci sentiamo tutti più liberi e che i numeri dei bollettini della Protezione Civile si fanno sempre più esili, ci si sta dimenticando quasi di quanto questo sia un virus feroce e subdolo e di quanti morti e malati si stia lasciando alle spalle. Le immagini dei camion militari con i feretri portati da Bergamo ad essere cremate nella nostra regione sembrano lontane anni, come quelle degli infermieri e dei medici chiamati eroi e poi tornati ad essere lavoratori qualunque, anche. E forse qui in Friuli Venezia Giulia non sono mai arrivate prepotentemente, perché qui il virus è stato meno forte che in altre zone di Italia e del mondo. Qui i numeri sono sempre stati sotto controllo e non tutti hanno percepito il reale pericolo di questa pandemia. 

Ecco allora che le parole di chi ci è passato, rischiando la vita, lottando con tutte le sue forze e uscendone profondamente segnato, possono insegnarci qualcosa che fino ad ora ci era sfuggito.

La storia di Jarno

Jarno Calderini è un omone udinese di 46 anni, è leggermente iperteso ed è dirigente come manager responsabile di ufficio tecnico alla Danieli di Buttrio. Lo scorso 12 marzo comincia ad avere una febbre oltre i 38.5 e un po' di tosse secca, il medico gli dice di curarsi con la tachipirina ma la febbre fatica ad abbassarsi e lui insiste con il centro di prevenzione per effettuare il tampone. «Erano ancora i primi giorni e non si facevano ancora molti tamponi, ma dopo aver insistito e non essermi nemmeno accorto della fatica che facevo a respirare, il 17 marzo dopo cinque giorni di febbre alta e tosse mi sono recato in ospedale a farlo».

Il tampone e il ricovero

Jarno si reca all'appuntamento che ha ancora febbre e durante l'operazione per il tampone perde i sensi. I sanitari lo mettono in osservazione nel reparto di malattie infettive e si accorgono già che la sua saturazione è piuttosto bassa. Anche la radiografia che gli effettuano in attesa dell'esito del tampone mostra dei segni di focolaio al polmone sinistro. E poi, in serata, l'esito: Jarno è positivo. «L'osservazione è diventata un ricovero effettivo in malattie infettive ma nel giro di tre giorni la polmonite è peggiorata a tal punto da rendere necessario il trasferimento in terapia intensiva».

Il tracollo

È il primo giorno di primavera, il 21 marzo. Jarno non sa quando e dove abbia contratto il virus, probabilmente tra fine febbraio e inizio marzo, quando ancora le restrizioni non erano in vigore. E non sa che di lì a breve la sua vita è destinata a cambiare. «Ero in terapia intensiva e il 21 pomeriggio ho mandato un selfie alla mia compagna del quale non ho davvero memoria. Nel giro di poco sono peggiorato a tal punto che i medici hanno deciso di intubarmi e così mi hanno sedato».

Il peggioramento

Jarno rimane in sedazione e intubato fino al 6 aprile: 17 giorni dei quali non ricorda ovviamente nulla, se non dei sogni fantascientifici e surreali. «So che i medici hanno chiamato mia madre per dirmi che se non fossi migliorato nel giro di 48 ore si sarebbe dovuta preparare al peggio». Durante il periodo in cui è rimasto intubato, Jarno è stato sottoposto a molte cure, alcuni farmaci retrovirali, cortisone e anche l'ozonoterapia del dottor De Monte. «Il 6 aprile ho finalmente ricominciato a respirare, anche se male. Sono stato estubato e ho capito di aver superato la fase critica». 

La lentissima guarigione

Su di Jarno sono stati eseguiti tutti i protocolli: i medici, le infermiere e tutto il personale medico dell'ospedale di Udine ha messo in atto tutte le procedure possibili pur di sconfiggere il virus e, dopo venti giorni dall'esito positivo del tampone, il 46enne è risultato negativo. «Per questa guarigione devo ringraziare i medici, le infermiere, le oss... sia di terapia intensiva che di malattie infettive. Quando sono stato estubato mi hanno detto "ti abbiamo preso per il coppino" e io ho capito di aver rischiato di morire». Una volta negativizzato il virus e tolta l'intubazione, però, per Jarno è cominciato un altro piccolo calvario: la riabilitazione nella semi intensiva Covid. «Dal 7 al 24 aprile ho dovuto imparare a fare tutto di nuovo, come un bambino: per 17 giorni sono stato immobile con un tubo che respirava per me, un sondino che mangiava per me, un altro che espelleva i liquidi e un catetere venoso. Non avevo più muscoli né l'abilità di mangiare da solo né tanto meno quella di camminare in autonomia».

Il contraccolpo psicologico

Una volta trasferito nel reparto di semi intensiva Covid, però, Jarno non ha potuto vedere nessuno, «solo le donne e gli uomini dell'ospedale che attraverso gli occhi e i gesti mi trasmettevano il loro amore». È qui che Jarno si fa dei nuovi amici, che condividono con lui un calvario inaspettato e sconvolgente. Una malattia che ferisce nel corpo e nello spirito, che ti toglie il respiro e la vicinanza degli affetti. «Questa è psicologicamente una malattia devastante, pesante... che ti allontana dalle persone che ami e che ti amano. Io ho contagiato la mia compagna, che si è fatta anche lei tre giorni di ricovero e solo oggi, dopo 14 giorni dalle mie dimissioni, possiamo tornare a dormire insieme e darci il primo bacio». Jarno è stato dimesso il 25 aprile, dopo oltre un mese di ricovero. 

La lezione del virus

«Vorrei che le persone non abbassassero la guardia, anche se adesso i medici sono tutti più pronti... ma l'esperienza l'hanno letteralmente fatta su persone come me che hanno rischiato di morire». Jarno Calderini è provato, nel fisico e nello spirito. Durante il ricovero ha perso 15 chili, la capacità di respirare e camminare da solo ma non la consapevolezza della pericolosità di questa malattia. «Questo è un virus bastardo - ci dice senza mezzi termini - e se dovessero rialzarsi i contagi sarebbe un dramma. Io ho ancora difficoltà respiratorie, faccio fatica a fare le scale e devo fare fisioterapia. Il recupero polmonare non è affatto immediato ma ho imparato molte cose: mi sto ridefinendo come persona, mi sto prendendo cura di me e dei miei affetti... so di essere un sopravvissuto e spero che non capiti più a nessuno quello che io e i miei cari abbiamo dovuto vivere in questi mesi». L'ultimo pensiero è per il personale sanitario, «non finirò mai di ringraziarli, mai».

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