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Giovanni e gli altri: i pazienti di fuori regione che rimarranno nel cuore dei medici friulani

Sono state undici le persone portate negli ospedali friulani da Lombardia e Veneto, sette a Udine e quattro a Trieste: "un orgoglio poterli curare e vederli guarire"

Se ne è parlato poco, come spesso succede quando si ha a che fare con le cose dei friulani. Eppure l'esempio del Friuli Venezia Giulia nel mezzo di questa emergenza sanitaria è stato eccellente. Certo, i numeri hanno favorito un'organizzazione che in altre regioni non è stata possibile, eppure nell'assoluto silenzio mediatico nazionale, le aziende sanitarie del Fvg hanno non solo affrontato i casi di Coronavirus con un protocollo studiato ormai nel resto del Paese, ma sono riusciti a rinnovare l'apparato strutturale e tecnologico degli ospedali stessi. Inoltre, sia a Udine che a Trieste, oltre ai pazienti regionali sono stati accolti malati provenienti da altre regioni, dove le terapie intensive erano sull'orlo del collasso. In totale sono state 9, 5 a Udine e 4 a Trieste, le persone provenienti da Lombardia e Veneto a essere trasportate in Friuli Venezia Giulia. Di queste purtroppo una non ce l'ha fatta per le gravi condizioni in cui si trovava, mentre gli altri sono stati tutti dimessi.

La riorganizzazione di Udine

A raccontarci l'esperienza dell'ospedale di Udine, rispetto all'accoglienza dei pazienti non friulani curati a Udine, è il dottor Amato De Monte, direttore del dipartimento di Anestesia e Rianimazione dell'Azienda Sanitaria Universitaria integrata, con una premessa doverosa su quello che è stato il lavoro di questi mesi. «Adesso la situazione è tranquilla, abbiamo avuto la fortuna di trovare il modo di organizzarsi e adesso siamo quasi in astinenza da adrenalina. In due mesi abbiamo dovuto inventare tutto, gestire nuovi rapporti, confrontarci giornalmente con la Regione e i direttori: è stato messo in piedi un sistema di gestione condivisa e sono state attivate le strutture che dovevano rispondere all'emergenza che stava arrivando. A tutti gli effetti ci siamo trovati davanti a numeri che aumentavano e ci correvano dietro mentre lavoravamo».

Per De Monte, la fortuna è stata quella «di non aver avuto tsunami», grazie alla scelta di chiudere prima di altre regioni. «La chiusura anticipata ci ha permesso di avere 15 giorni in più per attrezzarci, oltre che contenere il contagio».

I pazienti da fuori regione

A inizio marzo le terapie intensive della Lombardia erano già sature: da qui la richiesta dell'assessore Riccardo Riccardi e della dirigente regionale Gianna Zamaro rivolta ai maggiori ospedali friulani di poter accogliere, se necessario, pazienti da fuori regione. Dopo pochi giorni sono arrivate le prime domande. «A Udine dalla Lombardia  sono arrivate cinque persone, poi due dal Veneto. Due di questi erano pazienti non Covid, che avevano bisogno di assistenza e sono stati trasferiti per liberare posti nelle terapie intensive lombarde». Questi pazienti avevano un'età tra i 45 ai 70 anni e in media sono state ricoverate per 15 giorni nella terapia intensiva di Udine. Ora sono stati tutti dimessi.

Interventi complicati

Tra i motivi di orgoglio, per De Monte, c'è il fatto che l'ospedale di Udine abbia continuato ad operare negli altri reparti nonostante l'emergenza, portando a termine interventi molto complicati anche su pazienti da fuori regione. «Una delle persone trasferite è stata un uomo non positivo che veniva dalla cardiochirurgia di un ospedale lombardo e che necessitava di un intervento chirurgico che in Lombardia non riusciva a fare. Quindi qui è stato sottoposto a un'operazione con supporto cardiaco meccanico, quindi molto difficile».

Persone, non numeri

Quello che traspare è l'assoluta dedizione del personale sanitario degli ospedali regionali nella cura di qualsiasi paziente. «Siamo stati orgogliosi di poter dare una mano», ci ha raccontato De Monte. «Tra le persone arrivate da fuori regione a Udine, una purtroppo non ce l'ha fatta. Era un paziente lombardo con patologie pregresse molto gravi che non gli hanno consentito di sopportare l'intensità di terapie effettuate da protocollo in terapia intensiva, come la ventilazione meccanica. Molte persone non si rendono conto, infatti, che le cure in questi casi sono molto invasive». 

Reparto Covid di Udine

«Dopo aver creato in tempi record un reparto Covid dal nulla, qualche giorno fa abbiamo potuto chiuderlo con gioia. Il reparto è stato riaperto qualche giorno per un paziente cardiochirurgico che era positivo e che ora è stato trasferito di nuovo», ci racconta ancora De Monte. «Quello che ci ha permesso di lavorare così bene e di poter ospitare pazienti da altre regioni lo riassumerei in poche parole: efficienza della risposta, organizzazione ovvero grande gioco di squadra e disponibilità di tutti di impegnarsi».

Il destino che ha salvato una vita

«Una storia che mi ha colpito particolarmente riguarda uno dei pazienti della Lombardia. Le persone che devono essere trasferite sono scelte a livello nazionale, non sappiamo con che criterio. Un giorno - ci spiega De Monte - abbiamo saputo che un paziente doveva partire in elicottero e poi è stato cambiato all'ultimo, ma non sappiamo perché. E così a Udine è arrivata una persona che prima di partire ha passato tre giorni in pneumologia e si è resa necessaria l'intubazione, ma siccome non c'erano posti hanno dovuto lasciarlo in una delle stanze del pronto soccorso fino alla sera del trasferimento. Quando è arrivato a Udine ci siamo subito resi conto che se non fosse salito su quell'elicottero non ce l'avrebbe mai fatta. Il caso ha lavorato per lui e la sua storia mi ha fatto pensare al destino: se non ci fosse stato quel cambio di paziente questa persona non sarebbe mai sopravvissuta. Qui abbiamo potuto curarlo, è stata dura perché era in condizioni molto gravi, ma pian piano ha recuperato ed ora è tornato a casa».

I casi di Trieste

A raccontarci i casi di pazienti di fuori regione ricoverati a Trieste è Umberto Lucangelo, il direttore del dipartimento di Emergenza dell'Asugi e coordinatore del settore Covid a Trieste. «La storia inizia con i primi di marzo, quando già da fine febbraio eravamo preparati: intorno al 9/10 marzo, la dottoressa Zamaro e l'assessore Riccardi ci hanno chiesto se potevamo accogliere pazienti in particolare dalla Lombardia, il tutto con la mediazione dalla centrale remota con sede a Pistoia che si occupa di decongestionare le terapie intensive»

«A Trieste sono arrivati 4 pazienti dalla Lombardia e me li ricordo bene tutti: due pazienti, un uomo e una donna, non Covid, e due positivi al virus. La donna non contagiata è arrivata il 10 di marzo ed è stata accolta in terapia intensiva non Covid post operatoria e dopo cinque giorni è stata trasferita a Gorizia: necessitava di un percorso post cardiochirurgico ed è stata accudita dal punto di vista ventilatorio. il secondo è arrivato il 9 marzo e anche lui è stato accolto in terapia intensiva post operatoria, dopo un intervento neurochirurgico. È stato accudito e poi inviato in neurochirurgia. Entrambi hanno superato la criticità e sono stati dimessi».

I pazienti Covid dalla Lombardia

«A metà marzo - continua Lucangelo - sono arrivati i due pazienti positivi al virus. A Trieste è stata portata una donna di Cremona, rimasta molti giorni in terapia intensiva, per poi essere trasferita in pneumologia e in riabilitazione. Solo il 21 aprile, dopo quasi un mese e mezzo, l'abbiamo potuta dimettere»

Il 38enne neopapà

Il dottor Lucangelo, però, è particolarmente legato alla storia di Giovanni. «Anche Giovanni viene da Cremona e la sua storia non la potrò mai scordare: a soli 38 anni era davvero in gravi condizioni, lo abbiamo intubato e poi trasferito in pneumologia Covid. È stato il primo paziente trattato con grande successo e mi è rimasto nel cuore. Dopo che lo abbiamo portato a risveglio sono stato il primo a potergli dare da bere con una siringhetta e lui mi ha detto "mi sta svezzando come un vitellino"». Mentre Lucangelo ci racconta queste storie la sua emozione è palpabile. 

L'emozione e l'orgoglio

«Tutti e 4 i pazienti che abbiamo ospitato sono guariti e e sono stati dimessi, Covid e non Covid. È stato un orgoglio, ma anche una grande soddisfazione sotto il profilo umano poterci prendere cura di loro e vedere il decorso positivo. Abbiamo fatto il possibile, anche mettendoli in contatto con i loro parenti e quando ci è stato proposto nessuno si è opposto, con grande slancio medici e infermieri si sono messi a disposizione. Se fosse necessario, lo rifaremmo ancora e ancora: siamo pronti!», conclude Lucangelo.

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